sabato 20 febbraio 2010

Introduzione a 'Il Principe di Condé', Libri Este, 2010

“Si racconta che il principe di Condé , dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina”.
Così inizia il secondo capitolo dei Promessi sposi. Il giorno dopo, 19 maggio 1643, il giovane duca di Enghien, futuro principe di Condé, vince la battaglia, fermando l'avanzata degli Asburgo. All'opposto, nota Manzoni, l'atteggiamento di Don Abbondio.
“Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l'indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. (…) A ogni partito che rifiutava, il pover'uomo si rivoltava nel letto. (…) Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre alle idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo”.
Don Abbondio vive nel passato, resta afferrato a giorni che non potranno tornare. Vittima dell'insicurezza, si accosta al sonno angosciato. L'angoscia porta a vedere come inadeguate le soluzioni che la mente disperatamente esamina. Il sonno, così, non può ristorare. Al risveglio, il malcontento impedirà a don Abbondio di affrontare la situazione mettendo in campo le risorse che pure sono alla sua portata.
Certo l'atteggiamento del principe di Condé ci appare più costruttivo. Ma possiamo anche pensare che lo stesso Manzoni non abbia colto appieno la novità insita nell'atteggiamento del principe. E che lo stesso principe avrebbe potuto fare di meglio.
Mi piace pensare che il principe di Condé abbia dormito profondamente non solo perché era stanco, non solo perché, avendo dato “tutte le disposizioni necessarie”, si sentiva tranquillo. Voglio immaginare che avendo ormai fatto tutto quanto era ragionevole fare, ed approssimandosi la notte, si sia messo a leggere romanzo. Del resto, ricordo quella vivida pagina di Guerra e pace: Tolstoj ci mostra il generale Kutuzov che, sul campo di battaglia, terminata la conversazione con il principe Andrea “trasse un acquietante sospiro e riprese la lettura del romanzo che non aveva finito”.
Credo che di fronte alle difficoltà sia sia utile, anzi necessario, prendere le distanze dall'istante, liberare la mente, lasciarla vagare. Solo galleggiando nell'apparente, momentaneo vuoto si trovano le soluzioni creative, le soluzioni veramente vantaggiose.
Così, mi dico, e vi dico: quando le scadenze incombono, quando l'incertezza della situazione ci impedisce di prevedere cosa accadrà il giorno dopo, non serve pre-occuparsi: 'occupare prima', occupare da subito la nostra mente con una immagine di quei problemi, una immagine che, dopotutto, in nessun caso è in grado di rappresentare la realtà che avremo sotto gli occhi domani. Non serve pre-pararsi oltre misura, impossibile e inutile approntare soluzioni veramente adeguate prima di vivere i momento.
Dunque, cosa fare la sera prima: lasciare che la mente vaghi altrove, leggendo un romanzo. La mente semidesta si muoverà nella trama, seguendo lo sviluppo dell'intreccio – ma allo stesso tempo liberamente vagherà. Lo svolgimento della narrazione, svolgimento che i romanzieri mirabilmente sanno mostrarci, così, viene ad essere benaugurate narrazione di come sapremo muoverci nelle nostre quotidiane battaglie.
Avevo in mente tutto questo quando proposi la Raoul C. D. Nacamulli, allora direttore di Sviluppo & Organizzazione.
Nel compilare questa terza raccolta -che esce in coincidenza con il quarantennale della rivista, e con l'assunzione di rsponsabilità da parte del nuovo direttore, Gianfranco Rebora-, mi rivolgo a tutti coloro che non vogliono rinunciare a cogliere un senso nel loro lavoro.
Donne e uomini, segretarie e amministratori delegati, operai e dirigenti, tutti in fondo, allo stesso modo, con lo stesso impegno e con la stessa dedizione lavoriamo, tutti contribuiamo a creare ricchezza sociale, tutti siamo gravati da fatiche e angosce.
Ma in modo speciale mi rivolgo a coloro che hanno già letto queste pagine su Sviluppo & Organizzazione. Diciotto anni sono una vita di lavoro. Ricordare così il tempo trascorso, riandando non solo alle cose fatte, ma anche alle cose lette nel frattempo, è confortante. Gli affanni e le inevitabili delusioni quotidiane sono stati mitigati da queste letture. Tornare a leggere è riannodare un'amicizia; è cogliere di nuovo il filo di una fraterna consuetudine, che illumina la vita.
Mi riallaccio così alla conclusione del libro che avete in mano.
Per via del trascorrere degli anni e dei ritmi eccessivi di vite indaffarate si erano persi di vista. Nelle pagine finali dell'Educazione sentimentale di Flaubert, Frédéric e Deslaurieres, un tempo amici, dopo lunghi anni si ritrovano. Ora, sbolliti per effetto dell'età i furori giovanili, si concedono il tempo di una tranquilla conversazione.
Guardando agli anni passati, Frédéric riconosce di aver sbagliato per “mancanza di una linea dritta”: ha troppo divagato, si è occupato di troppe cose. Deslaurieres al contrario imputa a se stesso un “eccesso di linearità”: non aver tenuto conto “delle mille cose secondarie” trascurando le quali si perde di vista l'essenza del “tutto”.
Frédéric e Deslaurieres ripensano ora ai vincoli esterni che li hanno condizionati: l'ansia del successo, il desiderio di fare carriera, l'ambizione che si misura con simboli socialmente riconosciuti: denaro, posizione, beni e oggetti. Il pensiero di questo passato affannarsi, ora, a distanza di tempo, può essere vissuto con distacco e autoironia. Non importa, in fondo, non serve, restare mentalmente legati al ricordo di quel vincolo esterno, di quella protervia dei capi o insensatezza dell'organizzazione che ci ha impedito di fare ciò che avremmo potuto e voluto. E tantomeno importa soffermarci autocriticamente col senno di poi sui perché: perché abbiamo sbagliato, quale specifico errore abbiamo commesso, quale aspetto del nostro carattere ci ha frenato.
Col senno di poi, si può riconoscere di aver sbagliato per eccesso di logica, o di sentimento. La saggezza, dono dell'età, del tempo che passa, ci aiuta ad essere via via più lucidi nel capire come abbiamo vissuto, quali sono state le svolte della nostra vita.
Quello che importa, e che appare chiaro ai due amici che ora tranquillamente conversano, è il rimpianto per il tempo che che non ci siamo concessi. Tempo per ragionare senza vincoli, tempo per sperare, per progettare. Tempo dedicato all'ozio, agli scherzi e ai sorrisi, tempo non condizionato da scadenze, obblighi, obiettivi. Tempo per 'lavorare bene'.
Solo se non ci lasciamo condizionare da aspetti limitanti del compito; e solo se non prendiamo troppo sul serio le regole spesso eccessive che noi stessi ci imponiamo, e che l'organizzazione sempre e comunque tenta di imporci; solo se riusciamo ad essere semplici e attenti al presente, intimamente tranquilli, solo se questo è il nostro atteggiamento riusciremo a cogliere l'attimo propizio, il momento più adatto per fare ogni cosa.
Estasi, stato di grazia, beatitudine: istante vissuto pienamente, senza limitazioni legate al prima e dal dopo. Credo che ognuno di noi, lavorando, ha vissuto momenti così. Momenti in cui si sta bene perché si è in sintonia con il mondo e si è in sintonia con il mondo perché si sta sta bene. Efficacia e piacere si motivano e si rinforzano a vicenda. Sono creativo perché sto bene, e sto bene perché sono creativo. E' a questi momenti che si dovrebbe tornare col ricordo. Sono questi i momenti dai quali imparare. Sono questi i momenti in cui siamo produttivi, per noi stessi, per gli altri, per l'azienda che ci impiega.
Credo che si possa essere d'accordo su una cosa: nonostante il pesante clima che inquina l'ambiente di lavoro, nonostante indebite appropriazioni dei frutti del nostro affannarci, nonostante gli altri non capiscano chi siamo e cosa stiamo veramente facendo, nonostante tutto, il lavoro ha senso. Lavorando creo, produco, costruisco il mondo intorno a me, e questo, qui ed ora, dà significato alla mia vita, mi dà piacere al di là della remunerazione.
Frédéric e Deslaurieres ci ricordano che privarci di questo piacere è un'ingiustizia nei confronti di noi stessi.

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